Ah, la perfida Albione… (considerazioni sparse su autori inglesi)
Dicono che le illuminazioni arrivino all’improvviso.
Ed infatti l’altro giorno dal niente mi si sono affacciate alla mente alcune riflessioni casuali su argomenti legati alle mie passioni principali: fumetti e serie televisive.
Non ho fatto mai mistero, tra le tante, della mia sfrenata passione per quel genio – sì, uso parole di un certo peso – di Neil Gaimane neppure dell’amore sfrenato per le avventure di un certo Signore del Tempo capace di emozionarmi con ogni sua incarnazione ma soprattutto quando ad interpretarlo è un anziano scozzese nei cui panni, probabilmente per similitudine di età, mi viene facile immedesimarmi.
Sandman è per me un’opera meravigliosa, ricca di spunti di riflessione e con numerosi e profondissimi livelli di lettura capaci di stimolare approfondimenti continui su molti argomenti riguardanti minuzie quali il senso della vita o l’origine e lo scopo delle nostre azioni…
Doctor Who invece mi ricorda ad ogni puntata quanto possa essere difficile e doloroso stare al mondo ma al contempo quanto di glorioso e magnificente ci sia nel cercare sempre di restare dal lato giusto degli avvenimenti, parte che quasi mai corrisponde a quella facile e conveniente…
Gaiman è punto di contatto dei due personaggi; magistrale creatore della saga fumettistica della fine degli anni ottanta del Signore dei Sogni ed anche sporadico ma sempre geniale sceneggiatore di alcuni episodi dell’undicesima rappresentazione del viaggiatore di Gallifrey. Non è però su questa incarnazione del Dottore (Matt Smith) ma alla successiva (Peter Capaldi) che la mia improvvisa illuminazione si è concentrata e quindi sul lavoro di scrittura di un altro inglese, certamente rispetto a Gaiman meno conosciuto e probabilmente anche meno geniale ma senza dubbio altrettanto abile nel costruire trame avvincenti capaci di trasmettere emozioni intense e profonde ovvero Steven Moffat, sceneggiatore e coordinatore delle storie di Doctor Who per diverse stagioni ricche di belle storie anche se non sempre da tutti apprezzate.
Proprio pensando all’ultimo episodio regolare della decima stagione, al toccante discorso del Dottore ai due Maestri, mi è venuto in mente un ardito – forse – collegamento con la saga di Sandman; piccolo inciso: questo monologo è già di per sé un capolavoro che riesce in poche frasi a condensare quello che, amio parere, dovrebbe essere lo scopo di chiunque metta la propria professione – ed in un certo senso la propria esistenza – al servizio degli altri e che ricorda a tutti perché il protagonista si chiami “dottore” o meglio, il Dottore.
A braccio… “Io non lo faccio per vincere, non lo faccio perché voglio sconfiggere qualcuno o perché voglio incolpare qualcuno… non perché è divertente e lo sa Dio non certo perché è facile. Faccio quello che faccio perché è giusto, perché è carino, perché è gentile”. Credo che nella frase del Dottore quello che mi abbia particolarmente colpito sia la parola “giusto”, un implicito richiamo quasi ad un dovere superiore ed inevitabilmente per immediata analogia che mi sia venuta in mente tutta la storia, meravigliosamente dipanatasi per circa dieci anni, raccontata da Gaiman nel suo Sandman.
A questo punto, come se si fosse sbloccata una serratura prima ben chiusa, un gran numero di ulteriori somiglianze tra le due narrazioni hanno iniziato a venirmi in mente. Il discorso che Moffat mette in bocca ad un Dottore quasi arrabbiato nel vedere come tutti i suoi sforzi per aiutare il Maestro siano stati inutili, ha molto in comune con tutti i comportamenti arroganti e supponenti che Morfeo ha tenuto nei confronti di moltissimi personaggi con i quali si è rapportato; molto sottilmente nella narrazione dei due protagonisti i loro autori hanno inserito atteggiamenti e comportamenti non propriamente positivi e seppur sia vero che a spingere entrambi i personaggi siano intenzioni buone, non si puònegare che traspaia dal loro modo di agire una certa insofferenza nei confronti di tutto ciò che non va nella direzione da loro giudicata auspicabile, in un modo che a volte sembra voler negare agli altri una possibilità od addirittura,mi permetto di dire, una libertà di scelta.
Ed allora mi ritrovo a ragionare meglio su questo paragone ed affiorano più evidenti le somiglianze tra questi due protagonisti che hanno un percorso di crescita – o più correttamente decrescita – tristemente simile. Sia Morfeo che il Dottore, soprattutto il dodicesimo interpretato da Capaldi, sin dall’inizio si comportano come se sapessero che devono morire entro poco tempo; in realtà credo proprio sia più corretto dire che cerchino la morte come forma di espiazione per peccati passati o meglio per azioni percepite da loro stessi come colpe.
Morfeo nello svilupparsi della storia ripensa a come per causa sua l’allora amata Nadia sia stata condannata all’inferno ed, ancora più terribile, addirittura suo figlio Orfeo sia stato obbligato a subire un ben peggior supplizio senza che suo padre abbia fatto nulla per proteggerlo… nasce così un desiderio inconscio di auto punizione che lo porta ad una condanna che sembra tanto una scelta di suicidio.
Anche il Dottore nel corso della sua dodicesima incarnazione si trova a dover gestire perdite emotive molto importanti. La famiglia del protagonista è da sempre stata composta dai suoi “compagni di viaggio” e durante il ciclo di Capaldi si assiste alla scomparsa prima di Clara (quanto ho amato il suo personaggio…) e poi, proprio mentre il Dottore cerca di riprendersi da questo dolore, anche a quella della giovane Bill, in una storia che ricordatanto una catabasi agli inferi (“La caduta del Dottore”, episodio 12 della decima stagione).
In entrambe le storie i percorsi di sofferenza e di morte sono però parzialmente addolciti da un seme germinativo per il futuro nuovo ciclo di narrazione, fatto questo che, pur dando alle storie appena raccontate un senso di tristezza meno definitivo, non rende meno assolute e dolorose tali vicende forse anche perché comunquesappiamo essere scontato che in ogni racconto seriale nessuna morte può essere considerata certa.
A ben vedere c’è anche un altro aspetto che potrebbe accomunare i due cicli, ovvero il modo pressoché identico in cui i protagonisti sembrano assecondare i piani delle loro nemesi.
Le macchinazioni del Maestro contro il Dottore e quelle di Desiderio nei confronti di Sogno sembrano infatti procedere al meglio anche grazie ad una certa miopia da parte degli “eroi” che agiscono senza quasi accorgersi di trovarsi nella ragnatela intessuta dai loro nemici per danneggiarli, o meglio pur rendendosene conto non fanno nulla per togliersi dal pericolo confermando l’idea che, più o meno consciamente, pensino di meritare la punizione alla quale vanno incontro e di dover ubbidire ad un destino comunque a loro superiore cui sia impossibile sottrarsi.
Due storie di espiazione dunque, dove la fine estrema causata da questa specie di suicidio viene resa meno cupa agli occhi dello spettatore dal fatto che appunto trattandosi di storie legate a personaggi comunque seriali, sotto un certo punto di vista sia assodato che nulla è definitivo e che ad ogni caduta corrisponda un nuovo rialzarsi. Amarezza e sofferenza spingono a riflettere sul senso della vita e dell’agire ma la certezza di una nuova puntata rende meno dolorosa agli occhi di chi guarda la morale di quanto raccontato… una possibilità di redenzione sarà sempre concessa a chi si impegna (mmmmh, mi ricordano tanto le parole di un’altra scrittrice inglese…).
E forse proprio alla natura inglese, intesa sia come indole che come clima, credo si possa attribuire una certa qual malinconia nel modo di raccontare le vicende da parte dei due scrittori britannici; nebbie, piogge, luce crepuscolare, eccessiva serietà ed uno spesso mal interpretato senso del dovere paiono essere componenti abituali del modo di essere degli abitanti del Regno Unito ed effettivamente ne trovo abbondanti quantità nelle meravigliose storie che Gaiman e Moffat dedicano ai loro personaggi. Ovviamente questo non è assolutamente un voler sminuire il valore degli autori, anzi ritengo che la loro attitudine e capacità di analizzare a fondo gli aspetti meno luminosi e più torbidi dell’animo sia una qualità importantissima che regala spunti interessantissimi per riflessioni profonde su quello che siamo o che vorremmo essere.
E quindi, come si era soliti dire quasi un secolo fa, “dannazione alla perfida Albione” e soprattutto ai suoi dotatissimi figli perché regalano opere sempre intriganti e ricche di specchi nei quali non è raro vedere riflesse le nostre paure e le nostre colpe; in realtà, però, è un grazie quello che io rivolgo ad autori così capaci di farmi provare ogni volta la vergogna per quello che non sono riuscito a fare per gli altri ma anche il desiderio di non arrendermi mai lungo un cammino di ricerca e di miglioramento personale.
Forse allora farei meglio a concedermi un’altra possibilità ed intitolare l’articolo “God save the U.K.”; fatemi sapere.
Recensione del Candido Umberto