“Maledetto il giorno che vi ho incontrati”

Accidenti… mi vergogno un po’ ma non mi è venuto in mente nulla di meglio che rubare – e parafrasare – il titolo di un film di Verdone per introdurre un mio nuovo sproloquio di argomento fumettistico. 

Probabilmente anche a causa delle mie inesistenti capacità illustrative, fin dalla più tenera età mi sono lasciato affascinare dalle parole e dall’abilità di chi è in grado di usarle con sapienza per creare universi da esplorare e nei quali perdersi. E’ quindi inevitabile che mi sia da subito appassionato alla bravura degli sceneggiatori, reputando spesso più importante l’aspetto della costruzione e dello sviluppo di una storia rispetto alla sua realizzazione grafica.

Gli insegnamenti appresi dalle pagine odorose di china sono molteplici e davvero ho imparato da molti di loro a guardare il mondo in un modo più maturo ed aperto agli altri, cercando di ragionare ed approfondire senza pregiudizi la realtà nella quale vivo; ed è a molti di questi sceneggiatori che vanno sia i miei ringraziamenti per avermi mostrato una strada che spero di essere riuscito a percorrere sia le mie “maledizioni” per la feroce dipendenza da belle storie che mi hanno causato.

Era il 1986 quando nel panorama fumettistico italiano irruppe uno dei personaggi più importanti degli ultimi quarant’anni: Dylan Dog. Ho avuto la fortuna – perché solo di fortuna si tratta – di imbattermi nell’allora ultimo figlio di casa Bonelli sin dalla sua prima apparizione ed a farmi innamorare di quei volumi fu proprio la complessità e profondità delle storie raccontate ossia l’immensa maestria nel guardare nel cuore delle cose, e delle persone soprattutto, di un autore che con il passare dei mesi avrei sempre più ammirato: Tiziano Sclavi.

Ritengo che colui che è considerato il papà di Dylan Dog abbia avuto una parte molto importante nell’indirizzare la crescita dei lettori verso una lettura più profonda delle storie che sfogliavano; soprattutto ricordo che a colpirmi fu il ribaltamento del punto di vista su quanto veniva narrato… per me, abituato fin da piccolo a ritenere che il concetto di giusto, buono e bello appartenesse – quasi per diritto divino – alla “gente normale”, il poter leggere le storie di Sclavi, in cui il mostro è spesso solo una persona con un diverso modo di intendere la vita oppure il frutto di fattori esterni che lo privano della possibilità di scegliere, credo sia riuscito a minare dalle fondamenta i (pre)giudizi sbagliati ed a fornire le basi per lo sviluppo di una maniera di pensare più libera ed aperta al confronto con gli altri.

Quello che maggiormente ricordo degli albi dell’indagatore dell’incubo è il costante invito a mettersi dalla parte del mostro e del diverso in modo da vedere se veramente le sue azioni sono dettate da cattiveria, crudeltà o follia o se invece risultino alla fine solo essere dettate da condizionamenti esterni o dall’impossibilità di avere una scelta diversa. Ad una lettura più profonda, rifatta anni dopo e quindi – mi auguro – anche più matura, mi è capitato inoltre di considerare il fatto che mai l’autore abbia semplicemente “rovesciato le colpe” dando banalmente vita a racconti in cui i cattivi sono le persone comuni ed il buono è invece il mostro braccato; nelle storie di Sclavi infatti trovo sempre un’analisi della vita dolorosamente onesta, volta ad investigare a fondo su quali siano le ragioni che spingono le persone ad agire, senza attribuire a nessuno in modo manicheo concetti di giusto o sbagliato. 

Mi è capitato di ritrovare uno dei libri scritti da Tiziano Sclavi (Mostri… quale titolo più adatto avrebbe potuto scegliere?) ed ho visto come proprio l’autore senza problemi, nei risvolti di copertina, affermava di essere lui stesso il mostro raccontato nelle sue storie; la naturalezza e la schiettezza di quelle parole servirono sicuramente ad accrescere il mio rispetto per la persona e per l’opera stessa. La consapevolezza che nei mostri che vengono descritti si celino in realtà le forme di persone comuni non può che facilitare l’accettazione del diverso come parte integrante del nostro stesso mondo ed a vederlo quasi come un fratello e non come un altro da sé, eternamente dalla parte del torto.

Il mostro è Sclavi e di conseguenza il mostro siamo anche noi che ci rendiamo conto di essere in grado di capire fino in fondo le ragioni delle sue azioni e che, sia pur senza poterle giustificare laddove sfocino nella violenza, possiamo però almeno non giudicarle dall’alto di un piedistallo che in realtà non esiste e, se anche mai dovesse esserci, non sarebbe il luogo adatto a noi.

Con il passare degli anni tanti sono gli sceneggiatori che ho incontrati nelle pagine di Dylan; tutti hanno lasciato qualcosa nella scia degli insegnamenti del maestro ma uno in particolare mi ha fatto spesso riprovare le stesse sensazioni avvertite leggendo le prime avventure dell’indagatore dell’incubo… dal 2015 iniziano ad essere presenti sulla testata regolare storie sceneggiate da una scrittrice emiliana allora emergente ed oggi ampiamente affermata: Barbara Baraldi.

Non sono tanti i numeri in cui l’autrice della saga letteraria di Aurora lavora con e su Dylan ma in tutte le avventure mi è capitato di riassaporare le emozioni, forti e spesso contrastanti, che appunto mi capitava di associare al primo, storico sceneggiatore della serie. Personaggi a volte molto particolari ed impegnati in situazioni a volte estreme ma che sempre risultano essere più vittime che carnefici, obbligati da scelte, imposte molto spesso da altri, che a poco a poco, come una rete in cui ci si avvinghia sempre più nonostante si cerchi di liberarsene, non permettono loro di essere altro che mostri agli occhi del resto del mondo.

Profonda è a mio parere la sensibilità della Baraldi nel rapportarsi agli altri ma in particolar modo nel raccontare le persone in un certo qual modo “rotte”, a disagio ed in difficoltà ad adattarsi ad un mondo che tende a dare poco spazio ai sentimenti ed all’anima. Abilmente Barbara lascia emergere la grande umanità di questi personaggi, spingendo il lettore ad immedesimarsi e quasi a specchiarsi nelle vite di coloro che etichettiamo con superficialità ed eccessiva fretta appunto come mostri.

Paradossalmente per un’autrice che viene dal mondo del romanzo – la Baraldi è infatti una delle voci di maggior valore nel mondo della letteratura italiana contemporanea, grazie soprattutto ai libri del ciclo di Aurora – trovo che questa sua particolare caratteristica di saper mettere in evidenza l’anima ed il vissuto dei personaggi emerga particolarmente proprio nelle sceneggiature dei fumetti, dove si è costretti a condensare molto dell’essenza dei protagonisti in un numero di pagine non elevato; in poche tavole riesce sempre a dare una visione completa delle mille sfaccettature che compongono ogni persona, rendendo facile al lettore condividere le vite dei personaggi raccontati.

Ogni volta che rileggo le storie di Dylan sceneggiate da Tiziano o Barbara trovo che ci sia quasi un filo conduttore ad unirle e credo che sia proprio, per racchiuderlo quasi ingiustamente in una sola parola, l’empatia. Infinita e meravigliosa capacità di comprendere la sofferenza ed il percorso costitutivo di ogni singola persona senza minimamente giudicarla a priori, l’empatia permette ai due autori di raccontare ogni accadimento ed ogni ferita che ha lasciata sulla pelle dei personaggi come se fosse stata vissuta da loro in prima persona e di trasmettere al lettore le sensazioni provate con sincerità disarmante. E già ai tempi dei greci antichi questa capacità di comprendere e condividere l’altrui sofferenza risultava essere una delle caratteristiche più importanti per definire l’umanità di una persona. 

Qualche anno dopo la mia scoperta dell’indagatore dell’incubo un nuovo eroe di casa Bonelli si affacciò nelle edicole; Natan Never fece il suo esordio nel 1991 grazie al lavoro dei “tre sardi” ossia Michele Medda, Antonio Serra e Bepi Vigna e da subito mi colpì per la sua caratterizzazione molto precisa.

Le sceneggiature dei tre autori regalano un personaggio fortemente umano e contemporaneo, benché le sue avventure siano ambientate nel futuro, riuscendo a rendere facile l’immedesimazione del lettore con il protagonista. Seguendo le avventure dell’agente Never ho potuto vedere, e soprattutto capire, come sia facile sbagliare nella vita e come le conseguenze di tali errori possano poi pesare su tutta l’esistenza ma ho anche visto che da tali sbagli si possa e si debba trarre insegnamento e stimolo per migliorare, senza cedere alla disperazione come unica via dopo aver compiuto un qualcosa di disdicevole ma senza neanche dover inevitabilmente intraprendere una crociata di redenzione per scontare ad ogni costo le proprie colpe.

Natan Never non è una persona che diventa migliore per superare gli errori compiuti in passato ma è un uomo che cerca di diventare migliore nelle scelte quotidiane della vita che comunque va avanti incurante di quanto sia accaduto precedentemente.

Ho sempre trovato incredibilmente concreta e profondamente umana questa rappresentazione del protagonista fornita dai tre sceneggiatori ed ho avuto l’impressione, credo per la prima volta nella mia limitata esperienza di lettore di fumetti, di confrontarmi con una persona reale i cui pensieri e le cui azioni erano apprezzabili per lo sforzo alla loro origine; mi viene quasi da dire che Natan sia stato il primo personaggio fumettistico visto come un adulto cui ispirarsi. E questo proprio grazie agli errori commessi nel suo percorso di crescita; errori peraltro che gli capita di continuare a commettere, proprio perché uomo e come tale fallibile.

Serra, Medda e Vigna mi hanno messo di fronte ad un fumetto adulto e più razionale; rispetto a quello più istintivo e “sentimentale” degli sceneggiatori di Dylan Dog, dove erano più le emozioni a trasmettere il piacere della lettura, nelle pagine di Natan Never l’aspetto principale è proprio quello del ragionare su come migliorare il proprio modo di vivere cercando di essere persone realizzate e felici interagendo con gli altri in modo maturo e costruttivo… ovviamente senza dimenticare che di intrattenimento si tratta e quindi i tre sardi sono sempre stati in grado, sia in cooperazione che lavorando da singoli sceneggiatori, di realizzare trame verticali ed orizzontali capaci di appassionare enormemente il lettore.

Dell’universo editoriale Bonelli fa parte anche l’etichetta AUDACE ed è proprio con questa sigla che è pubblicato uno degli ultimi lavori di Mauro Uzzeo e Giovanni Masi ossia “Il Confine” e sono loro i due sceneggiatori con i quali mi fa piacere chiudere il racconto dei miei autori preferiti. In questa serie che mescola sapientemente investigazione ed orrore le qualità dei due artisti vengono ampiamente esaltate da una conduzione narrativa avvincente e matura e credo non sia un caso che proprio a loro sia stata affidata anche la regia del progetto che vede incontrarsi il mondo di Zagor e quello di Flash nella serie dedicata agli eroi di casa Bonelli e DC.

Un modo di sceneggiare, il loro, sicuramente molto moderno e che nasce dalla capacità di lavorare in più forme del mondo dell’intrattenimento ed infatti non è irrilevante il percorso che hanno compiuto anche in ambito cinematografico. Traspare come valore aggiunto la loro capacità di tessere trame capaci di coinvolgere il lettore come se si trattasse di una narrazione visiva cinematografica, introducendo nel mondo delle nuvole parlanti quei particolari attrattivi tipici della televisione in una fusione che porta benefici sia all’opera scritta che a quella visiva miscelandone le rispettive qualità.

La capacità di questi autori di inserire argomenti profondi e capaci di stimolare un approfondimento psicologico introspettivo e di giudizio sulla vita più in generale credo sia alla base dell’apprezzamento che questi nuovi sceneggiatori stanno giustamente riscuotendo; in un panorama nel quale sempre più si affollano produzioni che si affidano per il successo solo a trame o disegni ad effetto il saper costruire una narrazione credibile e coerente pur in un ambito fantascientifico – o quantomeno fantastico – è sinonimo di intelligenza e capacità creativa che davvero meritano di essere lodate e prese ad esempio.

Questo piccolo viaggio tra gli sceneggiatori di casa Bonelli che più mi hanno conquistato in questi anni mi ha anche messo davanti al fatto che crescendo i miei gusti si sono leggermente modificati, passando da un’adorazione sconfinata per le storie toccanti, fatte quasi più di forti sensazioni, emozioni e sentimenti – l’empatia di cui sopra – a vicende a volte complesse in cui il messaggio era più nascosto ma non meno potente… però… 

Però… 

Però… 

Però mi rendo conto che se oggi riesco ad apprezzare storie articolate e fruibili su più livelli devo innegabilmente dire grazie al maestro Sclavi che mi ha avvicinato al piacere di immedesimarmi completamente in un personaggio di fantasia insegnandomi soprattutto a non chiudere mai gli occhi davanti a quello che una storia raccontava alla mia anima; perché se è proprio vero che i mostri siamo noi è altresì vero che non sempre i mostri sono malvagi, anzi…

Pensieri e parole in libertà del Candido Umberto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Social media & sharing icons powered by UltimatelySocial