Alice in Borderland – l’apocalisse ludica di Tokyo

C’è un elemento perverso e morboso insito nella gaming culture giapponese. Andavi a recuperare il boss finale di Metal Gear Solid 2 se non capite che intendo. La necessità di esistere in un ambiente codificato in solide regole, ed allo stesso tempo evaderle per esprimere la propria libertà concettuale, genera frizioni che a volte sfociano nel sadismo puro. Pensate a Battle Royale.  

La gaming culture, surreale, apocalittica eppure allo stesso tempo legata ad una serie di piccole regole che permettono l’avanzamento dell’esperienza ha fatto scuola. Per decenni i personaggi esotici arrivati dal Sol Levante ci hanno eccitato. Perché, diciamocelo, lo stile di vita nipponico rappresenta un modo differente di rispondere alla stessa domanda che ci poniamo noi occidentali : come sopravvivere al logorio della vita moderna. 

Evasione, ovvio. Multimediale, chiaro. Così uno shonen manga, classe 2015, che ha sviluppato un buon numero di sequel e spin-off, diventa una serie di OAV e poi approda su Netflix.  

Alice in Borderland di Aso Haro, è la risposta perfetta a questa necessità. Tre protagonisti, perlopiù scansafatiche incapaci di integrarsi nel severo gioco di società giapponese che prevede un posto per tutto, se la stanno spassando a Shinjuku. (Si proprio il posto con l’attraversamento pedonale trasversale). Bevono e ridono aspettando i fuochi d’artificio quando accade l’inaspettato. Come dalla famigerata tana del bianconiglio si ritrovano da soli, apparentemente, in una Tokyo silenziosa e bellissima.  

Le suggestioni qui sono molte, tipo quel fantastico film che è Beautiful Dreamer (della serie di Uruseiyatura). Ma aspettate a socchiudere gli occhi con languida tenerezza. Perché la parentesi poetica termina con il loro arrivo in un condominio illuminato. Là troveranno altri sopravvissuti ed un crudele gioco, semplice ma letale. Sopravvivere ad una serie di stanze (quadri se amate i giochi da bar vecchia scuola) in un gioco a tempo. Fallire, significa morire. Arrendersi, significa morire. Non partecipare, significa morire. Chi vince, guadagna un visto di pochi giorni liberi prima di dover partecipare forzatamente ad un altro gioco. Chi si rifiuta, indovinate, muore.  

Eccola là, la metafora della vita di società giapponese. Una serie di livelli sempre più complicati e  letali. Competizione con sconosciuti per il diritto a partecipare ancora.  tutto con uno stile ed un ritmo impeccabile. 

La serie di Netflix riesce a cogliere alla perfezione queste sfumature. La critica sociale è presente eppure di sottofondo, mentre ben chiaro sotto gli occhi di tutti è il ritmo sincopato che fa venire voglia di vederne ancora e ancora di più. Man mano che le sfide si complicano e al gruppo si aggiungono altri personaggi, le dinamiche diventano più chiare. Si vocifera che la Tokyo silenziosa e letale sia una realtà virtuale stile Matrix. Ma questo non serve a rendere le cose più facili. La fotografia della serie è impeccabile, e credo che con Tokyo come sfondo, sia veramente difficile sbagliare inquadratura. Le riprese di interni, ci raccontano qualcosa di più sulla vita di tutti i giorni nei quartieri alveare. L’impressione in quel caso è di set più a basso costo dove però è l’impianto narrativo a non necessitare veramente di altro.  

Il mio consiglio è di sistemarvi comodi con gli auricolari nella vostra camera di capsule hotel e godervi la serie con l’audio originale (la versione italiana è impeccabile, ma stona) ed i sottotitoli. E non affezionarvi a nessuno dei personaggi. 

You are in the game now.  

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