Lovecraft Country: senso estetico e confusione

Credo siano permaste tracce, nel nostro DNA, di un rito ancestrale – risalente ai tempi in cui l’uomo viveva ancora di dinamiche tribali – inconsciamente sopravvissuto nella scrittura dei nostri caratteri genetici. Il cerimoniale del vecchio saggio che, riuniti i giovani intorno al fuoco, inizia a raccontare una storia. Narrazioni avventurose, eroiche, epiche, che permettano di imparare dal passato per guardare al futuro, ma soprattutto di preservare una comune identità.

È probabilmente questa reminiscenza atavica ad averci fornito non solo quella propensione naturale verso le opere narrative  ma anche la naturale capacità di percepire quando una storia sia raccontata bene o male.

Riferendoci a Lovecraft Country, provo un profondo imbarazzo, perché questo “sesto senso e mezzo” sembra essersi definitivamente appannato. Oppure, senza alcuna superbia, è l’opera a trasmettere una miriade di influenze dissonanti, contrastanti e stridenti. Potreste, infatti, rappresentarvela con – metaforica – approssimazione come un campo di battaglia in cui, l’un contro l’altro armati, sono accampati gli eserciti degli elementi estetici d’impatto e quello della scrittura incerta, confusa e traballante.   

Per cominciare, i natali della serie TV sono composti da giganti, colossi e pesi massimi. E già questo basterebbe per implementare le aspettative e puzzare di “successo annunciato” (locuzione spesso foriera di cattiva sorte): J.J. Abrams, produttore, Misha Green, regista, HBO, casa televisiva. Il tutto tratto dal romanzo scritto da Matt Ruff.

Tutto bellissimo, salvo per il primo squarcio al velo di Maya: il rimando al solitario di Providence è solo indiretto, de relato. Allo stesso si attinge lievemente in ambito iconografico, mitologico e tematico. Insomma, se vi siete accostati all’opera per questo motivo, aspettatevi – al massimo – di poterne annusare le “atmosfere” e qualche lieve arco riflesso, ma nulla di più.

Questo primo scivolone è, però, bilanciato da un atipico, intelligente e geniale colpo di reni. Lovecraft Country, infatti, si pone come anti-retorica lovecraftiana in tema razziale. 

Lo scrittore di Providence aveva reso uno dei pilastri della sua poetica la preservazione della razza  (lanciandosi in non velate aberranti visioni in cui speculare all’acume ed intelligenza bianca avrebbe fatto da contraltare la sub-umana inferiorità culturale nera). Attenzione, tale concezione – ingiustificabile sotto ogni punto di vista – è il tentativo di portare alle estreme conseguenze un odio razziale che permeava la società in cui il maestro del weird viveva. 

Gli Stati Uniti di Lovecraft facevano della segregazione una politica attiva – addirittura avallata dalla Suprema Corte – e della discriminazione un sentimento ancora accettabile. 

All’opposto di questa viscida inaccettabilità ed al sincero disagio che proviamo, la serie compie una scelta di grande acume. Dell’autore possiamo salvare senza ingombri morali l’opera: quel complesso di suggestioni orrifiche e disturbanti che tanto amiamo, senza che questo comporti l’accettazione di nessuna propaganda suprematista.

Anzi, per contrappasso condanniamo un’opera che porta il suo nome ad essere “black” per cast e vicende narrate.

Ora, in tema di casting, scelte inappuntabili. Gli attori sono muscolari, credibili, carismatici. Svettano Jurnee Smollet, nel ruolo di Letitia, Jonathan Majors, in quello di Tic e Michael K. Williams, interprete di Montrose.

Accanto al tema razziale viene affrontato anche quello dell’omotransfobia. Scelta legittima, ma che ingenera un polpettone ruffiano, non tanto per lo spettro del corretto cammino verso una normalizzazione dei diritti civili. Il vero limite risiede nella superficialità e nella fugacità con cui ogni tema viene trattato.

Infatti è questo il terreno su cui frana tutta la serie. Provando a replicare i colpi da maestro di Lindelof, in Watchmen, dove il tema razziale è perfettamente integrato, facendo da credibile sfondo ad un dramma di puro intrattenimento, Lovecraft Country sciorina una serie di argomenti problematici nella convinzione che un elencazione o la mera presenza generino catarsi. 

Si scade invece nello stereotipo, dove i buoni sono buoni ed i cattivi sono cattivi. Quasi facendo il gioco della parte opposta, in quanto la semplificazione è la prima fallacia di ogni rivendicazione.

Beninteso, non si metta in dubbio dove risieda giusto e sbagliato. Siamo consapevoli che i bianchi siano gli oppressori ed i neri gli oppressi. 

Sarebbe tuttavia falso fuggire la complessità. Il male è banale. I nazisti erano genitori amorevoli e presenti, buoni vicini, uomini affabili e ben educati. Così come i razzisti ed i mafiosi. Sarebbe un mondo semplicissimo – come in Lovecraft Country – se tutti avessero scritto in che squadra giocano. 

Ultimo, ma non per importanza, la serie ha il merito di spaziare tra più generi: mistery, ghost story, horror orientale, horror occidentale, azione, avventura. Questo aspetto, però, genera uno squilibrio – prendendo a prestito la terminologia fumettistica – tra continuity orizzontale e continuity verticale. Il peccato originale è di scrittura. Infatti, se alcuni episodi stanno in piedi da soli, lo fanno in quanto edonistici esercizi di stile, dalla regia agli effetti speciali. 

Di conseguenza la vicenda si trascina avanti (orizzontalmente) in maniera così confusa da perdere senso, lasciando lo spettatore in balia di fin troppi “…perché?”. Insomma non esiste vento a favore per il marinaio che non conosce a quale porto vuole approdare. 

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