Alfabeto Simenon: una biografia per frammenti

Immaginate uno specchio infrangersi al suolo: ogni frammento manterrà il suo potere riflettente, pur diverso dall’unicità che l’ha preceduto. Non esiste – ad umile parere di chi scrive – una migliore metafora rappresentativa di Alfabeto Simenon – di Aberto Schiavone, ai testi, e Maurizio Lacavalla, ai disegni – edito da BD Edizioni. Ancor più dell’allegoria del mosaico, cara alla sinossi del volume ed agli autori – a meno umile parere dello scrivente. Perché il mosaico è frammento che si fa intero, tanto più che, alla visione d’insieme, l’osservatore dimentica la singola tessera. 

L’opera, invece, è una costellazione di persone, eventi, personaggi, luoghi, libri, vizi, virtù, donne, amori, amanti, esperienze sessuali, parti – tutte – della biografia di Georges Simenon. Una frammentarietà che non cade mai nell’oblio, involontariamente ostentata, ma che riflette – come cocci di uno specchio, per l’appunto – l’insoddisfazione, il turbamento ed il tormento dell’uomo-Simenon.

L’espediente utilizzato è stilisticamente elegante, raffinato e soave: un racconto breve per ognuna delle ventisei lettere dell’alfabeto francese, iniziali del protagonista o dell’oggetto del racconto. Ventisei storie per flash, giochi di luce che sono immagine di un ricordo, di uno stralcio di vita. A meravigliare è il materiale di cui sono composti – oltre il supporto fisico della carta, ovviamente – impalpabile, etereo e fumoso com’è il componente della memoria. L’intuizione più grande degli autori, infatti, è non cimentarsi nella biografia canonica, essendo stato Simenon stesso biografo di sé stesso in “Pedigree” ed in “Memorie Intime”, collocando il volume, invece, in quello spazio che si trova tra il tributo e l’album fotografico.

Con gli strumenti del racconto lineare, probabilmente, non sarebbero riusciti a rendere merito allo scrittore belga, iconico già nell’aspetto, la cui misura erano l’immancabile pipa e gli inconfondibili occhiali. La sfida – raccolta con coraggio e vinta – era quella di raccontare l’autore oltre il Commissario Maigret, oltre ciò che il grande pubblico già conosce, oltre gli sceneggiati, le serie tv e le fiction. Raccontare lo scrittore percorrendo i sentieri nascosti della sua esistenza, non la strada principale. Non per nulla il tema della pluralità apre l’alfabeto di Simenon: “A” come “Alias”, ventisette gli pseudonimi adottati dallo scrittore, prima della consacrazione. Un numero impressionante, come impressionante è il numero delle sue opere, quattrocento, delle pagine scritte per giorno, circa ottanta e della velocità di completamento di un romanzo, quindici giorni dal concepimento al perfezionamento.  

In questo ordine caotico Schiavone dipinge con soluzioni abili le contraddizioni dell’animo di Simenon, autore “alimentare” per sua stessa definizione, confezionatore di pasti per il “popolo nudo”, semplice, schietto, diretto nel linguaggio, comprensibile a tutti; dato imperdonabile per i salotti letterari, che l’hanno sempre lasciato sull’uscio, in quanto troppo poco ricercato. Dicotomie che si declinano in povertà e lusso, famiglia e bordelli, gioie e dolori, appagamento sessuale ed insoddisfazione spirituale, sensibilità profonda e ottusità cieca, soprattutto ai dolori della figlia, morta suicida. 

Il compito di pacificare le contraddizioni – oppure di individuare un filo conduttore tra le vicende – è lasciato al lettore, cui è delegato l’incomodo di scegliere il proprio personale fil rouge. A parere – nuovamente umile – di chi scrive, il leitmotiv della vita di Simenon, prima che dell’opera, è il culto della donna. Amore per nulla stereotipato – attenzione forse anche sfacciato in certi casi – ma mai volgare, anche grazie ad un tratto grafico che al realismo spietato preferisce un concreto onirismo. Un legame basato sul principio della compensazione, volto a colmare il vuoto lasciato dalla madre, isterica ed anaffettiva, egoisticamente emotiva ed incapace di empatia; almeno nei confronti di Georges, cui preferì sempre il fratello, morto nella guerra d’Indocina del 1947. Evento tragico imputato dalla madre all’autore belga, che in realtà aveva salvato il germano – collaborazionista della Repubblica di Vichy – dalla forca, costringendolo ad arruolarsi nella legione straniera. Ma l’irrazionale acredine nei confronti di Georges affonda le radici decenni prima, quando la madre obbligò il marito a registrare il figlio come nato il 12 febbraio 1903, essendo il 13 venerdì, notoriamente giorno sfortunato.

Nel darci la possibilità di cogliere questo buco nero emotivo, Alfabeto Simenon ci permette di cogliere come il romanziere abbia tentato, probabilmente senza fortuna, di colmarlo. Attraverso un pendolo che oscilla tra il gallismo del tombeur de femme – lui stesso parlerà di circa diecimila donne, fra le quali molte prostitute – ed il padre amorevole ma narcisista, incapace di comprendere la profonda sofferenza della figlia, innamorata dell’inarrivabile genitore, cui indirizzerà l’ultima lettera prima del suicidio. Ma anche nella creazione di una sorta di harem, animato sempre di donne a vario titolo carismatiche, con ruoli diversi, dalla segretaria, alla governante, dall’assistente alla cameriera, ma con l’onnipresente carnalità del rapporto.

Il tratto nervoso di Maurizio Lacavalla si sposa perfettamente con l’animus dell’opera e con lo stile di Simenon. Se l’autore belga faceva letteratura col martello, eliminando avverbi ed aggettivi fino all’osso della costruzione della frase, così il disegno del fumettista è asciutto, essenziale, concettuale. 

Alfabeto Simenon è quindi un laboratorio, non per tutti, ma potenzialmente per ognuno di noi. Per chi Simenon già lo ama e per chi voglia assaggiare in punta di lingua il sapore del suo animo turbolento per imparare – magari – ad amarlo. 

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