Dylan Dog #420 – Jenny

Uno non può più neanche esprimere un’opinione che subito si fanno in quattro per fargliela cambiare…

Avevo da poco espresso proprio in questa sede il mio dispiacere per lo sviluppo, a mio giudizio, negativo delle storie dell’indagatore dell’incubo quand’ecco che mi trovo a leggere un buon numero di albi il cui livello mi pare nuovamente paragonabile a quello “dei vecchi tempi”.

In verità credo di dover più avanti articolare il mio pensiero in modo più approfondito perché ho la sensazione di notare una maggior qualità di albi legati ad una particolare caratteristica e mi piacerebbe condividere con voi questa impressione…

Ma veniamo a questo Dylan Dog 420, “Jenny” che è il terzo ed ultimo volume ispirato alle canzoni di Vasco Rossi; non entro nel merito della validità di questa idea e mi limito a giudicare i risultati che sono per me più che sufficienti nei primi due albi ed eccellenti in questo terzo. Una Barbara Baraldi davvero ispirata si incontra con un disegnatore come il mio concittadino Davide Furnò che trovo riesca sempre magnificamente a restituire su carta l’immagine dell’indagatore dell’incubo; ne nasce una storia che parrebbe cupamente realista ma che a mio parere riesce a trasmettere una forza ed una speranza di cui sono imbibite tutte le pagine del volume.

Per avvicinarsi ad un tema così grande, profondo, delicato e purtroppo bistrattato e non capito come la depressione ci vuole tutto il coraggio e la sensibilità che, giustamente, riconosciamo ad una scrittrice capace come la Baraldi, e così la sceneggiatrice emiliana si impegna al massimo per rendere onore ad una delle canzoni che ha dichiarato di aver più amato: “Jenny è pazza” di Vasco Rossi. Traspare nello sviluppo della trama dell’albo una conoscenza attenta sia dell’argomento trattato, sia del testo della canzone di Vasco che si sente essere “vissuta in prima persona” perché comunque chiunque di noi è stato Jenny almeno una volta nella vita; questa vicinanza alle tematiche della depressione permette di ottenere una narrazione scorrevole e comprensibile anche nei passaggi tra la narrazione più onirica della prigionia nella mente – guidando con maestria il lettore nei labirinti di un pensiero che distorce la percezione di sé (e di come si viene percepiti dagli altri) filtrando la realtà attraverso gli occhiali di una patologia che addirittura porta a punirsi per pagare anche colpe altrui – e quella più reale dell’incontro tra i due protagonisti.

Jenny, come nella canzone, viene spesso disegnata mentre dorme, mentre cerca una fuga dalla realtà – e questo ci offre anche modo di capire perché tanto preponderanti sono i toni scuri nei disegni di Furnò – ma altrettanto spesso mi rendo conto che viene rappresentata sorridente, ed è così (proprio sorridente) che mi accorgo di ricordarmela sempre quando penso a lei come protagonista di questa storia… la “pozzanghera” che pensa di portare solo malessere agli altri è in realtà piena di un liquido positivo che è la vita stessa; emblematica di questo punto di vista è la tavola a piena pagina dei due protagonisti che guardano una stella cadente in cielo con le parole di commento sottostanti…

Tanti sono gli spunti di ragionamento dati dalla sceneggiatrice e magnificamente realizzati dal disegnatore; da subito la figura di Dylan che precipita in un pozzo nero (di depressione) ci fa pensare che può capitare a tutti di ritrovarci senza la luce della speranza, così come le vignette con Dylan e Jenny allineati in verticale nella pagina ci fa sentire la comunanza delle persone in questa situazione di prigionia (mentale).

Incredibilmente intense sono le vignette di Davide Furnò che con tratti spigolosi e veloci ci restituisce un Dylan fatto di molteplici superfici su cui si riflettono tanti aspetti del comportamento umano; usa invece linee più morbide e dolci per Jenny, una figura della quale mi riesce impossibile avere paura o diffidenza; è questo a mio parere un modo davvero sublime di evidenziare la normalità e la positività di un personaggio che si vede invece negativo e nocivo. Furnò ci regala pagine di disegni di ottima fattura, con un uso intenso del nero, sfumato in tutte le sue declinazioni in modo da adattarsi alle ombre con cui la depressione copre le sue vittime ma anche con un modo particolare di esaltare la luce del bianco che – sempre non a caso – contraddistingue costantemente il volto di Jenny che mai si trova completamente nell’oscurità…

A Furnò inoltre devo una delle immagini che maggiormente mi hanno colpito – direi quasi “disturbato” nell’accezione positiva del termine – ultimamente: mi riferisco ad una vignetta dell’incontro con il cuoco della prigione… a mio parere quando un disegno si fa ricordare così, significa che stai facendo un ottimo lavoro…

Impossibile infine non fermarsi a riassaporare la conclusione dell’albo che non ci regala risposte semplici e banali ma ci ricorda come da una patologia così maledettamente subdola si esca non solo con l’aiuto di professionisti ma anche con l’appoggio di chi è disposto a non rinunciare a noi e ci rimane accanto nel viaggio fuori dal labirinto di una “mente che mente”.

Forse l’unica leggerezza l’ho trovata nel dichiarare apertamente che le figure incontrate da Dylan durante la sua fuga altro non sono che i modi che il nostro cervello ha di tenerci prigionieri… si poteva dare più fiducia alla capacità del lettore di vedere oltre le immagini ma può anche essere un modo per rendere ancora più chiaro il messaggio di speranza che secondo me vuole uscire chiaro e trionfante dalle pagine del volume.

E veniamo alla considerazione di cui parlavo all’inizio di questa chiacchierata…

E’ chiaro che ho apprezzato profondamente questo numero di Dylan Dog e devo dire che ultimamente molta della produzione della Bonelli per l’indagatore dell’incubo mi è parsa di qualità superiore. Parlo però di tutti quegli albi in cui la storia risulta completamente slegata dalla serie regolare, ossia quegli episodi che si reggono da soli, basandosi sulle caratteristiche generali del personaggio e non legandosi ad una linea narrativa definita. I “color fest”, i volumi particolari e questi episodi singoli mi sembrano essere di gran lunga più profondi e qualitativamente più validi della produzione mensile e mi viene da chiedermi se non dipenda proprio dalla libertà che gli sceneggiatori possono prendersi con i personaggi che non sono più legati ad esigenze di mantenere una linea di trama impostata sul lungo periodo. In questo modo si possono esaltare, portando al limite anche all’eccesso, caratteristiche che regalano nuove interpretazioni e punti di vista diversi da quelli tradizionali alle vicende dei personaggi, senza alla fine stravolgere le figure dei nostri eroi, libere di tornare ad essere quelli di sempre al termine di ogni avventura…

Mi rendo conto che il mio pensiero annulla quasi completamente il concetto di trama orizzontale e di crescita o cambiamento dei personaggi ma mi pare che parlando di figure che ormai hanno più di trent’anni di vita (e mi riferisco non solo a Dylan Dog ma anche ad esempio a tutto il mondo dei comics americani) le opere più interessanti siano proprio quelle che sfruttano caratteristiche sviluppate dagli eroi nei primi anni della loro “vita fumettistica” adattandole a storie via via più particolari e strutturate per affrontare particolari argomenti.

Resta comunque indiscutibile il fatto che dopo essermi lamentato qualche mese addietro che Dylan non era più quello della mia giovinezza, ecco che mi ritrovo a seguirlo con occhio attento perché è riuscito nuovamente a catturare la mia attenzione (e le mie finanze, maledetto): è proprio vero che di certe passioni non potrai mai liberarti…

Recensione di il candido Umberto

Dylan Dog 420 Jenny SergioBonelliEditore 4,40 euro

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