A noi c’ha rovinati Hollywood…

D’accordo, lo so… in casa IndustrieNerd l’esperto di cinema (e non solo) è l’inarrivabile Flamio. Pure io però, non fosse altro per l’aver conosciuto personalmente i fratelli Lumière, posso vantare una discreta sfilza di pessimi momenti formativi offerti dalla magia del Grande (prima) e Piccolo (in seguito) Schermo che da tanti anni, e si spera per ancora altrettanto tempo, riesce a farci sognare.

Già mi era capitato di raccogliere un florilegio delle immagini prese dai fumetti che maggiormente mi hanno colpito da ragazzino e che mi hanno accompagnato nel percorso di crescita che mi ha reso la (brutta) persona che sono; non contento di questo, mi sono accorto di come molte scene di film o di serie televisive avessero anche loro contribuito a spingermi verso taluni sentieri piuttosto che altri e quindi ora mi pare davvero ingiusto non porre registi, sceneggiatori, attori e film tout court di fronte alle loro gravi responsabilità.

Quindi adesso toccherà nuovamente a voi sorbirvi un elenco cronologicamente casuale, probabilmente melenso e sicuramente incompleto di quelle opere – non c’è bisogno di dirlo, di ambito nerd – che spesso continuo a rivedere nella mia testa nei momenti meno opportuni della mia vita ma che senza dubbio rimangono come punti fermi e bussole direzionali per la mia navigazione esistenziale.

Terminator (James Cameron, 1984)

 

– Sta per arrivare un temporale, signora…

– Lo so.

L’ultima scena del film mi ha sempre fatto pensare alle sensazioni che si provano nell’imminenza di un qualche grande impegno od avvenimento; momenti per i quali bisognerebbe essersi preparati al meglio con pazienza e dedizione, in modo da uscire vincitori da qualsiasi situazione senza mai perdere la speranza nelle proprie forze e la certezza di un risultato positivo. Proprio come ha fatto Sarah Connor.

Un pensiero sicuramente figlio dell’ottimismo degli anni ottanta che perfettamente incarnava la giovinezza dei miei quindici anni; a quell’età qualsiasi futuro problematico sembra poter essere affrontato di petto e schiacciato sotto la pressa del nostro vigore fanciullesco e vedere questa speranza di invincibilità venire trasposta in un film, rappresentata inoltre da un’eroina bella oltre che tosta, non poteva che essere valido motivo di immedesimazione ed al contempo garanzia di eterno ricordo nell’immaginario di tutti i giovani nerd.

Porre le basi per la futura sopravvivenza in un mondo dominato dalla violenza delle macchine era una facile metafora di quello che gli adolescenti di allora cercavano disperatamente di fare per adattarsi alla vita reale in cui gli adulti cercano in ogni modo di soffocare l’istinto di libertà dei giovani… o perlomeno questo era quello che sembrava a me che poi sono finito senza neanche accorgermene a “lavorare in banca” scordandomi tutti i sogni di ragazzo.

Blade Runner (Ridley Scott, 1982)

Due anni prima del film di Cameron aveva fatto la sua comparsa sui grandi schermi di tutta Italia il capolavoro di Ridley Scott, Blade Runner. Un film che aveva dato dignità di esseri umani a tutti coloro che erano in grado di amare, e questo grazie ad un finale che non dava certezze sulla durata dei rapporti, proprio come nella vita reale, ma soprattutto in virtù del monologo del replicante Roy (l’ispiratissimo Rutger Hauer) sul senso della vita e sul suo inestimabile valore.

Sono convinto che chiunque negli anni ottanta sia stato adolescente ricordi a memoria, magari sbagliandone qualche parola ma sicuramente non il significato, il discorso finale dell’androide che, dopo aver salvato la vita al suo “nemico”, si spegne letteralmente sotto la pioggia incessante e caratteristica delle città del futuro. Con aggiunta di colomba che si alza in volo alle sue spalle. Applausi, nostri. E lacrime, sempre nostre; etante…

La vita che si dimostra tale, e degna di ricordo ed elogio, in virtù non tanto di ciò che si è visto, conosciuto od imparato ma solo in rapporto a quanto tutto quello che ci è capitato ci ha resi migliori, in grado anche di sacrificarci per un fine superiore e non egoistico.

Bello, porca miseria… a tredici anni l’idea di morire su un tetto facendo l’eroe e salvando quello che ti dava la caccia fino ad un momento prima non sembrava neanche tanto male… anzi. E poi c’era pure la colomba che spiccava il volo… cosa si può volere di più?

Magari adesso a rivederlo il pathos non è più quello di un tempo, ma innegabile resta il pensiero che allora questa scena mi ispirò tanti ragionamenti su quale direzione dare alle mie giornate (avendo comunque come punto fermo che per morire andava benissimo anche aspettare il centomillesimo anno d’età…).

Star Wars episodio V (Irvin Kershner, 1980)

 

E vogliamo fare finta di niente a proposito del monumento cinematografico di George Lucas?

Buona parte del mio amore per la fantascienza ed i suoi derivati arriva dalla trilogia originale di Star Wars; immagini e dialoghi che sono rimasti impressi a fuoco nella mia mente di bambino/ragazzo e che mi accompagnano tuttora saltando fuori all’improvviso anche nei momenti meno opportuni.

Il secondo episodio della saga rimane a mio parere il migliore in assoluto (anche se Rogue One, oddio…) e sicuramente quello in cui trovano collocazione alcune iconiche affermazioni spesso riportate anche in modo approssimativo od inesatto od anche assolutamente a sproposito.

“No, io sono tuo padre” è la frase che ha fatto saltare sulla poltrona del cinema ogni spettatore oltremodo preoccupato per la sorte di un Luke Skywalker già privo di una mano. Insomma, gli indizi in effetti spingevano fortemente verso questa possibilità, però avere la conferma che il cattivo (?) fosse addirittura il padre dell’eroe era un bel pugno nello stomaco. Però al tempo stesso questo fatto consegnava all’immaginario collettivo il quadretto perfetto del giovane che si ribella all’autorità paterna stando dalla parte della ragione (tanto poi che sarebbe finita a tarallucci e vino lo sapevamo tutti…); ovvio che una scena così sarebbe stata da citare ad esempio per tutti i ragazzini che sentivano crescere in loro la voglia di scappare da genitori repressivi, retrogradi e pure un po’ stron&i (perché per un adolescente i genitori sono così a prescindere) in modo da certificare la loro superiorità spirituale nei confronti dei propri padri.

Piccola e dolorosissima parentesi personale: uno dei momenti in cui mi sono sentito più vecchio ultimamente è stato quando ad una persona molto cara ho citato la suddetta frase e questa mi ha guardato come se fossi matto… non aveva mai visto Star Wars. Ed io, oltre a sentirmi anzianissimo, sono morto dentro ed ho dovuto spiegare il tutto risultando imbarazzato ed imbarazzante… Ah, che sofferenza la differenza di età…

Ma nel film c’è un altro momento iconico; un nanetto verde con orecchie più lunghe del normale (ma una Forza senza limiti) regala un’altra frase storica: “Fare, o non fare. Non c’è provare”.

Certo, a mente fredda e con la maturità che a più di cinquant’anni dovrei avere, la banalità di queste parole dovrebbe essere evidente ma se tuttora me le ripeto come un mantra ogni qual volta mi accingo a compiere un’impresa (eufemismo per indicare le numerosissime stupidaggini che compio in ogni ambito della vita) vuol dire che davvero sono state per me una base forte sulla quale costruire la voglia di impegnare tutto me stesso nelle attività intraprese nel lavoro, nello sport e nella vita in generale.

Spesso poi capita di fare e non riuscire ugualmente ma trovo che questa semplice frase abbia sempre il potere di spingerci a dare comunque il meglio di noi, cosa che non può mai essere considerata un difetto.

Harry Potter ed i doni della Morte Parte 2 (David Yates, 2011)

 

Non sono un amante della saga della Rowling e, di conseguenza, non ho mai seguito con particolare trepidazione né tantomeno attenzione i libri e le loro trasposizioni cinematografiche; trascinato però dal clamore entusiasta degli estimatori e della critica, con una leggera infarinatura sulla trama, andai al cinema a vedere l’ultimo episodio della storia.

E come il più gonzo dei ragazzini sono rimasto folgorato dalle parole di Severus… inutile chiediate quali, lo sapete benissimo… anzi, ad essere precisi, la parola è una sola: SEMPRE.

Un ceffone in pieno viso, la concretizzazione di un amore reale e vivo seppur (o forse si dovrebbe dire proprio perché) non corrisposto.

Io ti amo e lo farò per SEMPRE, ma sul serio. E ci morirò pure per questo amore. Ed agli occhi di tutti farò anche in modo di sembrare una persona orribile. Ma non importa, perché tu per me sarai SEMPRE.

Questa serie di ragionamenti mi hanno letteralmente sconvolto, ben più del montaggio analogico della Corazzata Potemkin, nobilitando tutta la saga del maghetto occhialuto; non nego che avvenimenti di vita vissuta abbiano pesato non poco sul giudizio dato da me a questa scena ma realmente trovo sia stato un passaggio importante per dare un messaggio di amore e sacrificio non banale e che può spingere lo spettatore a lavorare su sé stesso per dare un valore superiore ai propri sentimenti.

Matrix Revolutions (Andy e Larry Wachowski, 2003)

 

Nel 1999 l’uscita del primo Matrix aveva suscitato molto scalpore con la sua teoria volta a dare nuovi punti di vista sul concetto di realtà ed in effetti il film è stato apprezzato sia dagli spettatori che dagli addetti ai lavori. I due seguiti invece hanno ottenuto critiche meno entusiastiche sconfinando per certi versi anche in una sorta di metafora religiosa un po’ troppo cerebrale ed alla fine neanche troppo sensata. Eppure è proprio al terzo capitolo della serie che è legato il mio ricordo più vivo e toccante: un giovane ragazzo che assicura che avrebbe ricaricato le munizioni del lanciarazzi del compagno fino a quando questi avrebbe avuto la forza ed il coraggio di continuare a sparare. Una scena di per sé trascurabile ma che mi è rimasta impressa per il sotteso elogio della comunione di ideali; fintanto che saremo capaci di aiutarci l’uno con l’altro e darci reciprocamente forza nessuna meta potrà dirsi negata a priori. Pur di fronte alla disfatta quasi certa il concetto di vicinanza, di amicizia, di cameratismo rimangono valori di fronte ai quali non si transige e dal mutuo sacrificio può venir fuori il risultato più importante per il bene comune.

D’accordo, anche qui sembra il pistolotto d’arruolamento per la legione straniera ma per me il discorso del condividere le situazioni difficili per uscirne insieme vincitori è un bel concetto, alla base di tante amicizie anche nella vita reale.

Il Signore degli Anelli: Le due torri (Peter Jackson, 2002)

 

“Attendi il mio arrivo alla prima luce del quinto giorno. All’alba guarda ad Est”.

Che bello quando puoi contare su Gandalf il Bianco che, nonostante la situazione non sia delle migliori, con un esercito di orchi che ti assedia in una valle senza sbocchi, si prende la responsabilità di darti quella mezza speranzuccia di non finire squartato insieme a tutti gli altri allegri amici della compagnia.

Ed è ancora più bello quando, all’incirca cinque giorni dopo e proprio mentre decidi di fare una sortita a cavallo che tanto ha il sapore di un eroico suicidio, effettivamente il grande stregone si palesa con la cavalleria pronta a spazzare via i nemici.

Questo è il veloce riassunto dell’assedio al fosso di Helm ed è un momento che tanto ho amato (in verità non l’unico ma sicuramente il più intenso) di questa meravigliosa trilogia.

Spesso nei momenti più complicati e lungo i numerosi tornanti che caratterizzano la vita mi sono tornate alla mente queste parole, anche – e può sembrare assurdo – quando nessuno si era proposto di arrivare in un ipotetico futuro; eppure la speranza, e quasi mi verrebbe da dire la certezza, di ricevere un aiuto risolutore all’ultimo momento è sempre stata al mio fianco, spingendomi a guardare con fiducia “ad est” anche se gli occhi erano pieni di lacrime.

Che poi magari “l’aiuto” manco ha mandato un whatsapp per dire che non sarebbe venuto ma almeno io per un momento ci ho sperato e tanto è bastato per tenere duro e farcela ugualmente…

In verità tutta la trilogia è piena di frasi che meriterebbero di essere tenute a memoria ed apprezzate per gli insegnamenti che cercano di dare ma questa specie di appuntamento con il “settimo cavalleggeri” mi è sempre sembrato avere una vena lirica superiore a tutte le altre citazioni.

Jurassic Park (Steven Spilberg, 1993)

 

In tema di frasi illusoriamente positive mi viene facile collegare le liti condominiali della Terra di Mezzo con i nuovi cuccioli domestici portati sul grande schermo da Spilberg qualche anno prima. Ricordo che mi colpirono molto le parole del matematico interpretato da Jeff Goldblum quando, prevedendo un risultato non positivo per tutta la vicenda ma guardando alla situazione in modo più ampio e distaccato, sentenziò che alla fine “la vita vince sempre”.

Un modo di vedere le cose cui mi sono affidato molte volte, attraversando da protagonista o da spettatore numerose peripezie – o per meglio dire inenarrabili casini – nelle quali la speranza di venirne fuori vincitori od almeno non totalmente asfaltati erano davvero poche…

Sapere che in un’ottica più estesa l’evoluzione delle vicende avrebbe comunque portato ad una vittoria della vita (intesa come una soluzione migliore per quello che è il senso più generale dell’esistenza e non solo in quello egoisticamente personale) a mio parere può offrire ad ognuno di noi una speranza in più ed un’aggiunta di forza sufficienti a non lasciarsi andare ad uno sconforto esistenziale, inutile sotto ogni punto di vista. 

Spider-Man 2 (Sam Raimi, 2004)

 

“Ma come, tutto il giorno a parlare di fumetti e poi non citi neppure un film sui supereroi?”

Quasi mi sembra di sentirla questa lamentela, quindi in modo da non farmi rimproverare, ecco comparire nella lista anche un personaggio dei miei amati fumetti: il nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere.

Nel 2004 Sam Raimi riporta sugli schermi Tobey Maguire per il secondo episodio della sua trilogia ragnesca (a proposito, noterete anche voi come io appartenga alla fazione che ritiene i secondi episodi molto spesso i migliori di tutte le trilogie).

A questo film appartiene la scena che forse maggiormente mi ha impressionato, restando impressa a fuoco nei miei ricordi: sto parlando dello scambio di battute tra Peter e zia May in cui lei gli dice quanto importanti siano gli eroi, coloro che ti insegnano a tenere duro un secondo in più, a mantenerci onesti, a morire con dignità anche se a volte vuol dire rinunciare alle cose che desideriamo di più. Anche ai nostri sogni.

Ho netti nella memoria i momenti in cui queste parole mi sono risuonate forti nella testa… durante una maratona o discutendo con qualcuno su cosa fare in date situazioni ma anche in momenti ben più importanti, sul lavoro od in ambito affettivo; sembra infantile e forse anche stupido, non lo nego, però il discorso di questa vecchietta ha sintetizzato alla perfezione tutti quegli insegnamenti che negli anni dell’adolescenza hanno contribuito a formare il mio modo di affrontare la vita, cercando sempre di essere una persona se non proprio buona, almeno accettabile. 

Batman Begins (Christopher Nolan, 2005)

 

Per non fare torto a nessuno dopo aver parlato di un eroe di casa Marvel devo per forza citarne uno di casa DC e non posso quindi che affidarmi al grandissimo Nolan ed al suo umanissimo (anche se forse un pochino disturbato) Batman.

Nel primo film dedicato al cavaliere oscuro viene messa in bocca ad un personaggio fondamentale come Alfred una domanda centrale per ogni percorso di crescita: perché capita di fallire?

– Perché cadiamo signor Bruce?

– …

– Per imparare a rimetterci in piedi.

Non è solo il concetto di non accettare la sconfitta ad essere intrinseco a queste parole ma anche, e forse soprattutto, quello di trarre un insegnamento da ciò che è capitato, di rendere un momento negativo un qualcosa su cui appoggiarsi per crescere e migliorare. Non bisogna arrendersi ma neppure si deve continuare a caricare a testa bassa cercando di abbattere un muro a testate; anzi dagli errori è necessario trarre insegnamento per riprendere il proprio percorso in modo da poterlo portare a termine più facilmente… poi, per carità, spesso mi sono trovato a dare capocciate al suddetto muro senza mai cambiare nulla nel modo di affrontare le cose, però il pensiero di ragionarci sopra a volte mi ha almeno sfiorato e quindi anch’io come Bruce mi trovo a dover ringraziare Alfred per “non essersi mai arreso con me”.

Doomsday (Doctor Who stagione 2 episodio 13, 2006)

 

Mi sembra brutto tener fuori da questo florilegio di cinematografia l’importante contributo delle serie televisive e quindi vi porto con me a riascoltare alcuni momenti indimenticabili sentiti sul piccolo schermo.

E’ noto il mio amore per il Doctor Who, interminabile serie inglese che racconta le avventure di un viaggiatore – del tempo e dello spazio – alieno ma molto legato al pianeta terra, tanto da lasciare il cuore (comunque ne ha due) ad una intraprendente ragazzina inglese che deve però abbandonare in un universo parallelo per salvarle la vita.

Il personaggio del Dottore qui interpretato da David Tennant è protagonista di una delle frasi più belle che io abbia sentito dire ad una donna (e dire che di stupidaggini ne ho ascoltate e dette tante…): “sto bruciando un sole soltanto per dirti addio”.

Ok, avrete capito che sono un inguaribile sempliciotto però queste parole, pronunciate da un eroe che si batte per la sopravvivenza dell’universo in ogni sua forma di vita (anche quella di una stella) e che quindi va in un certo senso anche contro la propria missione, sono sembrate di una forza e di un romanticismo inarrivabili.

Avere la capacità di rinunciare al proprio amore mandandolo in un luogo irraggiungibile per salvare la sua vita lo trovo estremamente nobile (ed è lo stesso concetto del film di Spider-Man) però il tocco di classe di fare un’ultima videochiamata tra universi regala un senso di concreta umanità che non può lasciare indifferenti ed avvicina il Dottore a tutti noi poveri mortali che abbiamo dovuto affrontare la perdita della persona amata riuscendo a farcene una ragione ed ad andare avanti con la nostra vita, rinunciando magari ad una piccola parte dei nostri ideali pur di dirle un’ultima volta addio.

La costante (Lost stagione 4 episodio 5, 2008)

Si parla di ideali, di punti fermi, di “costanti” dunque. E quindi non posso che concludere la mia carrellata con quella che si è rivelata essere davvero una costante in ogni senso, la puntata – che costantemente riguardo – della serie televisiva più intrigante dei primi anni del nuovo secolo.

Desmond e Penny hanno rappresentato l’uno per l’altra il punto fermo attorno al quale sviluppare le proprie vite pur nella più totale fluidità degli accadimenti, il faro che serve da riferimento per stabilire la rotta da seguire, il porto sicuro cui approdare quando le tempeste della vita diventavano troppo impegnative per le loro forze.

– Penny, Penny… hai risposto…

Queste parole pronunciate da Desmond dal telefono di una nave ferma chissà dove (e chissà quando) nella notte della vigilia di Natale rappresentano tutto il senso di sollievo e di sicurezza che sapere di poter contare su una costante regala a coloro che hanno la fortuna di averla. Da quel momento ogni sfida od intoppo si ponesse sulla mia strada mi è sempre sembrato un po’ meno ostico proprio perché sapevo che avrei potuto contare su un punto di riferimento immutabile (vabbè, si sarebbe anche trattato di trovarla la suddetta costante, ma questo è un altro discorso…).

Poi, ovviamente, tale punto di riferimento può essere un amore, un affetto, una squadra di calcio… qualunque cosa ci dia la percezione di essere sempre lì, pronto a supportarci nel momento del bisogno. Certo che poi sarebbe meglio ci fosse veramente quando ce n’è necessità, proprio come Penny per Desmond; però non è il caso di fare troppo i difficili, adesso…

Sono arrivato alla fine; chiedo scusa a tutti quei piccoli o grandi capolavori che ho dovuto escludere dalla lista (penso alle serie di Star Trek ed al Trono di Spade, oppure ai film di Indiana Jones o degli Avengers) ma altrimenti avrei rischiato di scrivere un libro intero e quindi, volendo arrivare ad una conclusione di questachilometrica chiacchierata, quello che posso dire è solo che, se sono così, non è colpa mia ma del cinema e della televisione, perché, come direbbe Bart Simpson:

I Simpson (Matt Groening stagione 5 episodio 12, 1993)

 

– “Non sono stato io”.

Il candido Umberto

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