L’incredibile storia dell’Isola delle Rose: un sogno utopico di libertà
“L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” – disponibile su Netflix dal 9 dicembre – non è un film esente da difetti, anzi alcuni tanto stridenti da risaltare ad ogni “orecchio”, anche il meno allenato. Ciò nonostante la pellicola raggiunge un equilibrato bilanciamento grazie ad un cast di spessore ed al sognante messaggio utopico che viene abilmente trasmesso al cuore dello spettatore, rimanendo per tale ragione un film piacevole.
Raccontando la storia – romanzata – dell’Ingegner Giorgio Rosa e della “sua” Isola delle Rose, Sidney Sibilia tenta di equiparare il successo della trilogia di “Smetto quando voglio”. I paragoni sono obbligati e, paradossalmente, i punti deboli dell’ultimo sforzo del regista erano gli elementi di forza della storia della sgangherata banda di luminari della sua opera precedente.
Il trittico cinematografico, infatti, godeva di personaggi profondi e ben caratterizzati e – soprattutto – aveva il merito di raccontare la storia di una generazione senza speranza, quella dei nati negli anni Settanta, figlia di quei sessantottini che, con la scusa di cambiare il mondo, avevano goduto di un welfare state pachidermico e che – rapidamente sopiti i sogni incendiari – si erano incancreniti su solide e costose poltrone di radica, lasciando ai loro figli sigle impronunciabili – co.co.co. – ed una traballante vita colma di precariato giuslavoristico.
Agli antipodi di questa abilità, la ricostruzione storica dell’”Incredibile storia dell’Isola delle Rose” è il vulnus più grande. La vicenda è romanzata e sul punto nulla quaestio. Il film non è un documentario e sul punto nulla quaestio. Tuttavia, questa scarsa accuratezza si ripercuote sulla profondità narrativa e sulla “tangibilità” dei personaggi. Troppo frivoli e festaioli per incarnare un ideale così profondo come lo spirito dell’Isola delle Rose.
Il vero Ingegnere Giorgio Rosa era uomo dalla forte tensione ideale – tanto da aderire da giovanissimo alla Repubblica Sociale – e dalla concreta maturità all’epoca della concezione del progetto sognante di una piattaforma, cinquecento metri al di fuori delle acque territoriali italiane in cui l’unica regola fosse l’assenza di regole. Era già padre e non ancora figlio – come rappresentato nel film – ed il suo sogno era di libertà fiscale più che morale, in uno Stato in cui è tassata anche l’aria da respirare. Era inoltre, da un pezzo, professionista, consulente ed insegnante.
I personaggi di Sibilia sono – all’opposto – festaioli, superficiali, scanzonati e leggeri fino all’etereo. Anche un po’ antipatici a dirla tutta: si guardi a Maurizio, amico di Giorgio, interpretato da Leonardo Lidi, caratterizzato da uno smisurato razzismo verso i calabresi, prova che l’umorismo nero è un terreno minato, se non usato sapientemente.
Elio Germano, protagonista indiscusso, non sfigura, ma è depotenziato, non emergendo il suo spessore intellettuale, imprigionato dalla deriva giovanilista del suo personaggio. Riflessione applicabile, per estensione, a Gabriella (Matilda De Angelis), Neumann (Tom Wlaschiha – noto per il suo ruolo di Jaqen H’ghar in Games of Thrones, l’addestratore assassino di Arya) ed al resto della combriccola dell’Isola.
Ben rappresentata, invece, è la politica del tempo, dove emergono le figure di Giovanni Leone, allora Presidente del Consiglio di un governo balneare (durato da giugno a dicembre 1968) e di Franco Restivo, Ministro dell’Interno.
Il primo gode del carisma di Luca Zingaretti, che gli concede una tempra morale ed un piglio mai posseduti, durante tutta la sua carriera politica. Magistrale è Fabrizio Bentivoglio, nei panni del secondo, vero antagonista della vicenda, che incarna alla perfezione il bigotto conservatorismo politico del trentennio cinquanta, sessanta e settanta.
Ora, giustamente, vi chiederete dove vinca la pellicola. Il campo della vittoria, che salva il salvabile e si spinge oltre, è il sogno.
Arduo – infatti – che qualunque opera artistica riesca a trasmettere valori così immateriali come l’utopia e la libertà. Sibilia e Francesca Manieri – co-sceneggiatrice -, invece, riescono mirabilmente nel compito, nelle due declinazioni della sopraffina intelligenza e dell’ostinata determinazione.
Sotto il primo profilo un uomo dall’acuto ingegno può piegare la storia, tanto che le acque territoriali furono spostate da sei miglia a dodici, dopo l’affaire “Isola delle Rose”.
Sotto il secondo, la vicenda geopolitica arrivò all’attenzione delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa – ai tempi presieduto da Jean Baptiste Toma – interpretato da un frizzante e centrato François Cluzet – senza che l’Ingegner Giorgio Rosa – nella realtà e nella finzione – perdesse la guerra, vista l’extraterritorialità dell’Isola.
La retorica “anti-Stato” di Sibilia, sul punto, raggiunge il suo culmine. L’isola fu abbattuta a soprusi e tritolo dagli incursori della Marina Militare, in quella che rappresenta la prima ed unica guerra d’invasione dello stato italiano.
Questo sapore amaro vale tutto il film, il fiele dell’ingiustizia e della prevaricazione, che però non spezzagli idealisti che animano la nostra società, combattendo, anche solo per rendersi esempio e per seguire i dolci obblighi morali della percezione della giustizia, battaglie apparentemente perse in partenza.
Tanto che non bastarono le cariche esplosive, nella realtà. L’isola delle Rose sopravvisse a due esplosioni, la prima generata da 850 kg di tritolo, la seconda da più di 1000 kg, piegandosi – successivamente – solo alla forza del mare.
Forse è proprio in quell’isolotto artificiale, dichiarato indipendente il primo maggio 1968, con una propria lingua – l’esperanto -, una propria moneta e dei francobolli propri, che dobbiamo ricercare la forza di sognare in grande e di non fermarci di fronte a nessuna imposizione.