Vietnam Horror

L’orrore, il male, la tenebra… sono concetti reali e tangibili oppure sono solo emanazioni di noi stessi, lati più o meno nascosti delle mille sfaccettature della nostra personalità? Questa è la domanda, con conseguenti riflessioni, che, dopo la prima lettura di un nuovo fumetto, il vostro candido Umberto si è sentito in dovere di condividere con chi ha la pazienza di seguire le sue verbose dissertazioni…

Mi è capitato in questi giorni tra le mani il volume “Vietnam Horror” scritto da Massimo Rosi e disegnato da Vito Coppola e mi è sembrato meritevole di un piccolo approfondimento. La Leviathan Labs, editore che pubblica appunto questo brossurato, si sta dimostrando una delle realtà più attive nell’ambito del fumetto di questi ultimi anni proponendo anche in Italia prodotti molto interessanti e che hanno saputo farsi strada, pubblicati da Behemoth, anche nel mondo dei comics di oltre oceano; con questo progetto ha messo le capacità grafiche di Coppola al servizio della visione di uno sceneggiatore di qualità come Rosi e ci ha permesso di fruire di una storia avvincente e ben strutturata, capace di essere letta su più livelli.

La storia, inizialmente pensata come parte di una trilogia sulla guerra e poi cresciuta in modo da reggersi in piedi tranquillamente da sola, è ambientata nella penisola indocinese durante la guerra del Vietnam e racconta di una creatura, il “dio della montagna”, che si risveglia a causa del conflitto e non gradisce l’essere stato disturbato – da nessuno – a casa propria…

Una sinossi, la mia, ovviamente molto laconica ma che già dovrebbe far capire come il tema trattato non sia solo quello del conflitto bellico che viene narrato e che è quanto risalta ad una prima lettura, frettolosa e superficiale; ad uno sguardo più attento infatti non dovrebbero sfuggire i numerosi rimandi al buio, all’eclissi, alle trasformazioni che portano a smarrire la propria umanità… tutti elementi che già dalle prime tavole suggeriscono come la perdita di quella luce che ci rende degni di far parte del consorzio umano sia un’indicazione precisa sul messaggio che gli autori vogliono trasmetterci.

Difficile trovare un personaggio per il quale fare il tifo; fin dall’inizio viene ben delineato il comportamento di uomini che sono prima di tutto soldati, quindi persone che hanno avuto a che fare in modo diretto e profondo con la violenza e la cattiveria della guerra; hanno ucciso donne e bambini senza farsi domande sulla liceità delle loro azioni, ed uno dei protagonisti ha anche sulla coscienza un omicidio compiuto in America che gli rende ancora più difficile essere in pace con sé stesso. Eppure è anche altrettanto difficile puntare il dito contro questi uomini che alla fine non sono assolutamente differenti da noi e sorge spontaneo chiedersi se, trovandoci nelle medesime condizioni, non ci comporteremmo nello stesso modo…

L’eclisse sognata da tutti i soldati, la tenebra, il nero che domina ogni panorama acquistano quindi un significato più ampio, sono chiari segnali che la malvagità, il male sono parti integranti di ognuno di noi e non realtà separate e distinte; già in molte vignette vediamo come, da una parte cromaticamente bianca dove si trovano i personaggi, lo sguardo dei protagonisti – e soprattutto del lettore – si diriga verso una zona di ombre e di nero dominante, suggerendoci la discesa verso azioni e situazioni di tenebra.

In altre scene come ad esempio quella del serpente o della stessa metamorfosi di Stevenson, l’orrore esce fisicamente dall’uomo, quasi fosse creato dalla sua stessa natura di essere vivente; più volte viene anche suggerito che i vari massacri che avvengono ai danni sia dei vietnamiti che degli americani siano stati in realtà autoinflitti e non eseguiti dal dio della montagna che quindi si limita quasi ad essere solo catalizzatore della malvagità e della violenza racchiusa negli uomini, vittime e carnefici al medesimo tempo, di loro stessi.

Al contrario, la figura dell’immortale dio della montagna che appare proprio alla fine del racconto compie un atto che potrebbe essere considerato di generosità dal momento che lascia in vita Ramirez… la sua clemenza è però legata al monito delle ultime parole pronunciate, ossia la condanna a dover convivere con il ricordo di ciò che l’uomo – gli uomini – ha commesso. Lo voglio però considerare come uno stimolo a comportarsi meglio di come abbia fatto il soldato Colton, ad imparare dagli errori passati per non ripeterli più in futuro, a riconoscere ed accettare il buio che è inevitabilmente in noi lottando però per non lasciare che prenda il sopravvento poiché nulla di ciò che facciamo è privo di conseguenze proprio come ribadisce il dio della montagna con le sue ultime parole.

Ecco che sotto questo punto di vista la storia di Rosi mi ha colpito positivamente, come se fosse non solo una giusta condanna al male che trae origine da noi ma soprattutto uno stimolo a non cedere al proprio buio interiore, cercando in ogni occasione di dare solo il meglio di quanto abbiamo e di ciò che siamo.

Detto e ridetto che si tratta di una storia di malvagità e tenebra, non si poteva rendere la parte grafica del narrato meglio di quanto abbia fatto Coppola con l’utilizzo del digitale: un tratto sicuro, netto e deciso con un uso davvero sapiente del contrasto cromatico tra i pochi chiari ed i tantissimi scuri, declinati in infinite sfumature di nero, ovvero con un modo perfetto di giocare con le ombre e gli strati di tonalità cupe come la notte.

Molto evocativo anche il modo di costruire le tavole di ogni pagina con vignette che si sovrappongono, escono dai loro naturali confini, si frammentano e sembrano venirci incontro con il loro carico di orrore e di dolore; assolutamente rimarchevole anche la capacità di regalare la tavola a piena pagina a tutti quei momenti in cui il carattere evocativo della storia richiede la completa attenzione del lettore.

Peraltro già dalla copertina, disegnata dallo stesso Coppola e colorata con perizia da Angelo Razzano, si capiva di avere a che fare con un disegno di sottrazione, nel senso che sono quasi linee tolte ad uno sfondo profondamente nero e blandamente rischiarate da un rosso scuro e cupo come il sangue, nella copertina appunto, e da un bianco che fatica quasi ad emergere nelle circa cento pagine del volume.

Ormai per il nostro immaginario la guerra del Vietnam significa poco e forse le generazioni più giovani neanche sanno più di cosa si tratti ma questa storia merita di essere letta proprio per il suo punto di vista sul male e sulla sua origine, a prescindere dall’ambientazione storica che mi viene da pensare possa essere stata utilizzata proprio per arrivare con più facilità al pubblico americano che è ancora, diversamente da quello europeo, molto legato alle tematiche di una delle pagine più buie – eccola qui ancora l’oscurità che torna – della sua storia.

Recensione di il candido Umberto

Vietnam Horror  di Rosi e Coppola   Leviathan Labs editore        15,00 euro

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